MANIFESTO
Climate Social Camp 2023


L’anno scorso abbiamo organizzato il primo Climate Social Camp a Torino, un’esperienza che ha unito un’incredibile varietà di persone in 5 giorni di approfondimento sulle lotte climatiche ed ecologiste, sulle pratiche di lotta e le prospettive dell’ecologia radicale. Il CSC è nato dalle realtà di Torino ecologiste, femministe, studentesche in concomitanza al Meeting europeo di Fridays for Future. Quest’anno organizziamo nuovamente il campeggio, sulle radici del precedente ma con la volontà di sperimentare forme nuove e scendere con maggior profondità di analisi e confronto su alcune questioni che riteniamo centrali nella fase storica attuale. Ciò che ci unisce è la lotta per la giustizia climatica e sociale, di una giustizia quindi ecologica intesa come vita in equilibrio tra tutto il vivente umano e non umano e il non vivente. Questa è la spinta che ci permette di unire le energie e le idee in questi tempi difficili, riconoscendo le differenze che ci rendono eterogene3 e facendone un punto di forza. Organizziamo un campeggio perchè è un momento dedicato. Un momento in cui i percorsi che tracciamo sui territori che viviamo possono raccogliersi, incontrarsi e legarsi, possiamo fare un punto e basare ancora una volta il nostro percorso sul dialogo e sulla capacità di generare relazioni, relazioni di lotta e di resistenza. E’ una sfida perchè richiede impegno, richiede fare un passo indietro, ma senza arretrare, per dare spazio a tutt3.
Come? Crediamo nei principi dell’autorganizzazione, del dialogo e dei metodi decisionali democratici. La lente di lettura con cui guardiamo a questa fase storica e attraverso cui costruiamo questo campeggio è l’ecologia. L’ecologia è una scienza critica, sistemica, è una scienza che analizza ma che nella sua pratica ricostruisce, crea e propone alternativa. E’ sul solco di questa scienza, sociale, scientifica, politica ed etica al contempo, che vogliamo guardare al futuro, immaginare, creare e organizzare la nostra alternativa!
Riteniamo che non si possa organizzare una società libera e giusta, quindi democratica, senza includere una prospettiva transfemminista radicale. Nell’organizzare il campeggio, nei giorni di confronto e di azione vogliamo che questi temi e queste pratiche siano centrali: formarci nelle pratiche, confrontarci sulle prospettive, condividere e scoprire insieme forme che possano aiutarci a essere una rete, in grado di avanzare insieme capillarmente.
Il campeggio sarà esso stesso un momento di azione e resistenza ecologista, sorgendo in un parco che il Comune ha venduto alla catena di supermercati Esselunga per la costruzione di un nuovo punto vendita.
Prima di analizzare le tematiche del Climate Social Camp 2023, è importante soffermarci sulla fase storica in cui ci troviamo. Questo approfondimento è fondamentale poiché indagando le radici storiche del presente e quanto oggi accade possiamo capire e scegliere come agire. Il coinvolgimento dell’Italia nello scenario bellico mondiale è in continuo crescendo, oggi questo trova la sua espressione in Europa nel conflitto russo-ucraino. Quest’ultimo s’inserisce in un quadro ben più ampio di guerre che vengono orchestrate e condotte dalle potenze imperialiste (quali USA, Russia e non solo) definendo così il carattere globale dell’attuale conflitto europeo. Il nostro paese, seppur mantenendo un limitato peso politico, risulta essere una delle figure centrali in questo scenario, grazie alla sua posizione geostrategica al centro del cosiddetto Mediterraneo Allargato: l’area di “diretto interesse nazionale” che si delinea dall’Oceano Atlantico fino al Medio Oriente e al Golfo Persico. Ed è proprio in quest’area che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia ha portato avanti, guidata dagli Stati Uniti attraverso il blocco NATO, interventi militari di vario tipo, con particolare attenzione a tutte quelle zone in cui gli interessi energetici sono maggiori. Questi si sono concentrati principalmente nei paesi dell’Africa del Nord, quali Libia, Algeria ed Egitto, e in quelli del Medio Oriente come Iraq, Oman e Libano, andando così a supportare e a collaborare, come nel caso della Turchia e Israele, con regimi autoritari e coloniali.
L’Italia sta attualmente cercando, in maniera sempre più intensa, di ritagliarsi il proprio posto all’interno del nuovo ordine multipolare globale, mirando a diventare il nuovo hub del gas per l’Europa in modo da svolgere il ruolo di ponte tra il Medio Oriente, l’Europa e l’Africa, andando ad intervenire militarmente e con accordi politici in aree specifiche del Nord Africa, quali Tunisia, Algeria ed Egitto e del Medio Oriente per l’approvvigionamento del gas e avviando progetti di costruzione di gasdotti e rigassificatori su tutto il proprio territorio nazionale. Nonostante più del 60% della popolazione non sia a favore del coinvolgimento dell’Italia nel conflitto in Ucraina, il governo continua a investire nel riarmo, nella militarizzazione dei territori, in missioni militari in tutto il mondo e in una sempre più accentuata conversione bellica della filiera industriale. Solo nell’ultimo anno sono stati spesi oltre un miliardo di euro per le armi inviate in Ucraina. Le spese aumentano costantemente con l’aumentare dei progetti di costruzione di basi ed esercitazioni militari su tutto il territorio nazionale, con l’implementazione di infrastrutture energetiche, o con la costruzione di nuovi poli della NATO. L’occupazione del territorio italiano per fini bellici è massiva, la servitù militare agli USA e per la NATO colpisce quasi tutte le Regioni, interessandone alcune in modo massiccio. Primi tra tutti ricordiamo la costruzione della nuova base militare a Coltano, comune vicino a Pisa, città che da tempo è diventata un’area nevralgica per il settore militare anche grazie alla vicinanza con il porto di Livorno e alla presenza dell’aeroporto militare.
La Sardegna, con oltre 35 mila ettari di territorio destinato a servitù militare, e la Sicilia sono diventate le regioni più militarizzate d’Europa, nelle basi militari e nei poligoni delle isole si addestrano eserciti di tutto il mondo appartenenti al blocco Nato, con conseguente sottrazione del territorio, deturpazione ed inquinamento che hanno ricadute ambientali, di salute, sociali, economiche e culturali inquantificabili. L’occupazione dei territori però non si riduce soltanto a ciò che riguarda direttamente la filiera bellica.
L’interesse del nostro governo nell’investire nell’implementazione delle infrastrutture energetiche presenti sulla penisola ha portato ai progetti dei rigassificatori di Piombino e Ravenna e dei gasdotti che giungono in Puglia, Sicilia e Sardegna. Sono più di 40 le missioni militari portate avanti dal nostro governo: di queste più di 20 colpiscono i territori del Nord e Centro Africa dove si trovano i maggiori interessi energetici di colossi come ENI, principale azienda energetica italiana partecipata dal Ministero di Economia e Finanze per il 30%, i cui ricavi annui superano il centinaio di miliardi di euro. In tutti i territori in cui opera ENI si trovano infrastrutture anche di Leonardo, principale azienda bellica italiana, e l’Esercito italiano a riprova della violenza e dello scopo di dominio e accaparramento di risorse che spingono lo Stato italiano a colonizzare altri territori. Tutto ciò avviene mentre in Italia il 50% dei lavoratori dipendenti non arriva ad un reddito di 20mila euro annui, le bollette hanno un aumento del 131% a fronte degli extraprofitti delle compagnie energetiche: il carovita sta diventando economicamente e socialmente insostenibile. Aldilà di ogni opinione, possiamo dire che gli Stati-nazione e le macro potenze economiche combattono per ottenere l’egemonia globale a scapito delle popolazioni e delle società. Fermare questa spirale di violenza bellica sui nostri territori è necessario per porre fine a morti e devastazione.
Un altro aspetto centrale per comprendere in quale scenario parliamo di emergenza idrica e del problema della cementificazione è la crisi climatica.
Oggi stiamo a tutti gli effetti assistendo ad un passaggio epocale dall’Olocene a n’Antropocene: fase geologica in cui le attività umane alterano irreversibilmente i sistemi terresti. L’ecosistema ne porta le cicatrici: è ormai quasi impossibile trovare territori che non abbiano subito alterazioni dei cicli ecosistemici e del paesaggio. Stati, capitalismo e colonialismo hanno alterato la maggior parte degli equilibri di regolazione naturali,tra cui molti di regolazione del clima.
Nell’ultimo secolo il clima terrestre è cambiato significativamente. Tra i cambiamenti di cui l’attività antropica può considerarsi responsabile vi è l’emissione nell’atmosfera di quantità sempre maggiori di gas serra, proveniente dall’utilizzo di combustibili fossili impiegati soprattutto in fabbriche, mezzi di trasporto, di riscaldamento ed agricoltura e allevamento industriali. Il riscaldamento globale rende sempre più frequenti eventi climatici estremi quali acquazzoni, ondate di calore, gelate, cicloni tropicali e inondazioni, estinzione di specie animali e vegetali, siccità. Il 2022 è stato l’anno più caldo e secco dal 1800. La situazione dell’anno scorso ha avuto importanti conseguenze ambientali, sociali, strutturali e sanitarie che hanno impattato negativamente su metà della popolazione mondiale.
La siccità è un sintomo della crisi climatica che stiamo vivendo: non si tratta di un fenomeno metereologico. La crisi climatica porterà a disastri naturali sempre più frequenti e devastanti che causeranno danni irreparabili, a pagarne sarà in primis quella fetta di popolazione più povera che le istituzioni storicamente sfruttano e marginalizzano. La previsione di un futuro sempre più in declino è dovuta in gran parte alla negligenza delle istituzioni, all’aver imposto un modello sociale ed economico fondato sul profitto e il dominio di pochi.
L’impatto sociale dei cambiamenti climatici è in crescita, in un rapporto appena pubblicato e intitolato Heatwaves as an Occupational Hazard, Claudia Narocki awerte che le ripetute ondate di caldo stanno mettendo a rischio «la salute, la sicurezza e il benessere dei lavoratori» poiché «il caldo aggrava i problemi associati a un’ampia varietà di malattie cardiovascolari, respiratorie così come altre patologie acute e legate alla riproduzione». In questo senso, «lo stress termico riflette e accentua le ineguaglianze sociali preesistenti». Il caldo è un rischio professionale usuale per i lavoratori manuali, poco qualificati, stagionali, caratterizzati da un reddito basso e da compiti che esigono uno sforzo fisico, all’aria aperta, sotto al sole. L’ondata di caldo che colpì l’Europa nel 2003, facendo 70mila morti in 12 paesi, ha indotto la preparazione di piani d’emergenza a livello nazionale. Questi piani, tuttavia, riguardano principalmente la salute pubblica e le popolazioni a rischio, non la classe lavorativa nel suo insieme. Oramai a essere colpiti non sono più solo gli operai agricoli o edili, ma una vasta quantità di categorie di lavorator3 che toccano ad esempio tra cui spiccano i giardinieri, i fattorini, e in alcuni casi gli insegnanti.
In conclusione, il termine “Antropocene” può essere considerato improprio, in quanto va ad assumere l’umanità come omogenea, operando in questo senso una mistificazione: non tutta l’umanità è stata egualmente responsabile dell’aumento delle emissioni di gas serra. Considerando queste disuguaglianze, si può parlare di “Capitalocene”, non in quanto era geologica, ma riferendosi alle trasformazioni inscritte nei rapporti dì capitale che sono proprie di un’ecologia-mondo con specifiche relazioni di potere e forme di produzione della natura. È importante quindi da un lato riconoscere nel concetto dì Antropocene la dimensione epocale e di mutamenti, dall’altro lato è fondamentale sviscerare il termine poiché nega la differenza di responsabilità sull’impatto ecologico e la violenza del capitalismo e degli Stati.
Il tema più rilevante del Climate Social Camp 2023 è l’acqua e l’emergenza idrica nel contesto del cambiamento climatico. Il tema assume un’importanza fondamentale in uno degli anni peggiori che si ricordino da questo punto di vista. Come abbiamo ricordato prima, il 2022 e il 2023 sono stati tra gli anni più critici per quanto riguarda la siccità estrema e l’emergenza idrica. L’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (ARPA) ha stimato che il 2022 si sia chiuso con il 43% in meno di precipitazioni rispetto alla media. Questo dato allarmante è dato da oltre 110 giorni senza piogge e una temperatura media di 2 gradi superiore rispetto agli anni precedenti. Tale fenomeno ha causato, per diversi mesi, la riduzione del flusso del fiume Po causando gravi ripercussioni ecologiche ed economiche. Gli effetti secondari della siccità sono molteplici e contribuiscono ad aggravare una situazione già preoccupante. Tra questi effetti si annovera la diminuzione e il surriscaldamento delle risorse idriche sotterranee, utilizzate come approvvigionamento idrico in molte regioni ita liane, tra cui il Piemonte. Altri effetti includono la diminuzione delle riserve di ghiaccio e neve, con conseguenti impatti su agricoltura e allevamento nelle regioni montane durante i periodi di disgelo, e un preoccupante aumento del rischio di effetto isole di calore urbane.
A questo preoccupante scenario si aggiunge la cattiva gestione delle acque urbane da parte delle autorità regionali e comunali. Se la modifica parziale del ciclo idrologico piemontese ha portato a situazioni pericolosamente sconosciute, la gestione inadeguata del sistema di distribuzione e raccolta delle acque urbane è una realtà consolidata nel panorama della città di Torino, e in generale in Italia. La responsabilità è affidata a SMAT, una società partecipata e interamente controllata dal comune di Torino, che dovrebbe esercitare funzioni di indirizzo e controllo. ll Comitato Acqua Pubblica Torino, composto da attivist3 e tecnic3, stima che ogni anno le perdite nette di acqua potabile, classificata come ‘Freshwater”, siano dei 34%.
Le amministrazioni comunali e regionali, così come le strategie di mitigazione e adattamento nazionali, propongono soluzioni tecniche e infrastrutturali, che non prevedono alcun cambio di paradigma dell’organizzazione sociale e produttivo-economica. È necessario lo sviluppo di programmi e strategie sistemiche e olistiche, elaborate dalle comunità stesse, per la mitigazione della crisi climatica che si situino nella cornice dell’ecologia radicale, affinchè le politiche proposte possano effettivamente apportare un cambiamento sistemico radicale. Un caso emblematico, tra le soluzioni tecniche proposte, è rappresentato dagli invasi: una maxi-infrastruttura che dovrebbe operare per contenere la crisi idrica e immagazzinare acqua. La strategia degli invasi considera solo gli effetti della crisi idrica, agendo come una soluzione temporanea in un sistema già gravemente fallace. La realizzazione di nuovi bacini idrici, senza affrontare lo spreco idrico del modello agricolo intensivo non può essere una strategia vincente a medio-lungo termine.
L’agricoltura industriale intensiva contraddistinta da monocolture e destinata a soddisfare il fabbisogno alimentare soprattutto degli allevamenti intensivi è uno dei settori che emette più CO2 in atmosfera, comparabile solo a quello di tutti i trasporti messi insieme. Le monocolture hanno bisogno di enormi spazi ed elevate quantità di acqua e fertilizzanti chimici, colture ad alta richiesta idrica come il mais e gli allevamenti intensivi in generale non possono più costituire la principale fonte di produzione alimentare.
L’agroindustria si sviluppa a discapito della superficie coperta da foreste che, al contrario, assorbe CO2 mitigando le emissioni dì CO2 e protegge la biodiversità. Per questo è importante valorizzare l’agricoltura contadina che investe prevalentemente sulle risorse legate al lavoro e possibilmente interne, crea sistemi di adattamento ai terreni su cui agisce, è un’agricoltura che valorizza le sementi locali, è molto versatile e storicamente si sviluppa in base alla terra e alle persone che lavorano e abitano il territorio. L’agroindustria, sviluppatasi con l’industrialismo capitalista, necessita di investimenti di grossi capitali e punta alla realizzazione del massimo profitto, è un’agricoltura energivora, che disperde le risorse e impoverisce il suolo.
La scarsità idrica in agricoltura, sia come minore quantità disponibile in assoluto, sia come variazione della disponibilità in determinati momenti, abbinata allo stress termico, può rendere le colture più vulnerabili e comportare insorgenza di fisiopatie, carenze nutrizionali, maggiore sviluppo di infestanti e di patogeni, portando ad una minore produzione e perdita di qualità del prodotto. Gli agricoltori, avendo meno acqua a disposizione quando serve, si trovano a dover effettuare ingenti investimenti per l’irrigazione e a dover affrontare una maggiore concorrenza tra loro per l’uso di acqua e ad entrare in concorrenza con diversi usi di acqua ( per agricoltura, per uso civile e per idroelettrico). La minore disponibilità di acqua dolce, inoltre, fa sì che gli inquinanti nelle falde superficiali e sotterranee siano meno diluiti e questo porta a una minore qualità dell’acqua per futuri usi. La variabilità climatica, tra alternarsi di periodi siccitosi e periodi di alluvioni e allagamenti, crea difficoltà di programmazione per l’intero ciclo colturale. La scarsità idrica, inoltre, rende il suolo più impermeabile all’assorbimento corretto di acqua in caso di alluvioni e causa una perdita di fertilità e di struttura del suolo riducendo la buona crescita di una coltura e lo stoccaggio di carbonio. Una minore produzione, dovuta alla scarsità idrica, causa una perdita di reddito per tutti quei territori che basano la loro economia sull’agricoltura.
La grave siccità che stiamo vivendo intacca anche le montagne che sono considerate veri e propri “serbatoi d’acqua”. In questi ultimi due anni la situazione è drammaticamente
precipitata, alcuni rifugi ad aprile si trovavano già ai livelli minimi di disponibilità idrica dalle fonti d’acqua, situazione che in una stagione normale si presenta ad ottobre. Le dighe si trovano sotto la metà dei normali livelli d’acqua, situazione che si trascina dalla scarsità delle precipitazioni dei primi sei mesi dei 2022. La siccità sta già producendo effetti sull’ecosistema dei fiumi, sulla flora e sulla fauna, causando dismatch tra specie con drammatiche ricadute sulla riproduzione e l’approvvigionamento di cibo. I temporali vanno ad alimentare le falde, ma ci vuole molto tempo prima che l’acqua arrivi ai fiumi.
Nel frattempo anche i bacini delle centrali idroelettriche si sono ridotti, spesso costringendole alla chiusura o a una forte riduzione della produzione. Alla fine della scorsa estate aveva destato clamore la notizia che il Rifugio Quintino Sella al Monviso era stato costretto alla chiusura anticipata già a settembre, a causa della siccità. Quest’anno, dopo un inverno tra i più asciutti della storia e una primavera caratterizzata da temperature quasi estive, la situazione appare ancor più grave lungo l’intero arco alpino.
Il Decreto sulla siccità approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 aprile 2023 ha generato diverse problematiche. Secondo Corrado Odd i, rappresentante del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, emergono criticità in tre ambiti: infrastrutturale, amministrativo e politico.
Dal punto di vista infrastrutturale, sia il decreto che le dichiarazioni del governo trascurano completamente il problema fondamentale del rinnovo della rete idrica del Servizio Idrico Integrato (SII). Gli acquedotti perdono oltre il 40% della portata d’acqua potabile lungo il percorso e necessitano di ristrutturazione. Tuttavia, sembra che si privilegino nuove grandi opere, come laghi artificiali, invasi, bacini e impianti di desalinizzazione, anziché concentrarsi sul non disperdere le risorse già disponibili.
Dal punto di vista amministrativo, sì è scelto un intervento diretto dello Stato centrale tramite il Commissario Speciale, che elimina ogni forma di controllo sulle grandi opere previste e introduce elementi di arbitrarietà e imprevedibilità nella gestione.
Dal punto di vista politico, il problema risiede nella logica emergenziale del decreto.
La siccità, insieme al crisi climatica ed ecologica, non è una problematica contingente, ma strutturale ed ingravescente. Il governo, ignorando queste criticità, si limita ad adottare misure in gran parte propagandistiche e temporanee, spesso a favore delle grandi imprese che realizzano le grandi opere. In alcuni casi, tali politiche possono rappresentare un problema per i cittadini, come nel caso di un eventuale razionamento dell’acqua, che ha un impatto minimo sulla risorsa stessa.
Un’altra delle principali critiche rivolte al Decreto sulla siccità riguarda la mancanza di un approccio olistico e a lungo termine nella gestione della crisi idrica. Si ritiene che il decreto si concentri principalmente su soluzioni di emergenza, trascurando le cause profonde della siccità nel paese. La siccità è un problema complesso e multidimensionale, legato al cambiamento climatico, alla gestione delle risorse idriche e alle pratiche agricole. Tuttavia, il decreto non sembra adottare strategie preventive o investire in misure dì conservazione dell’acqua, efficienza idrica o agricoltura sostenibile.
Inoltre, viene sollevata la mancanza di una visione integrata e di un coordinamento efficace tra le diverse istituzioni e gli attori coinvolti nella gestione della siccità. La collaborazione sinergica tra governo centrale, autorità locali, esperti scientifici, comunità agricole e società civile è fondamentale per sviluppare strategie efficaci e a lungo termine per affrontare la siccità. Tuttavia, non interessa allo Stato un coordinamento adeguato, che porterà a un’allocazione inefficiente delle risorse e a una mancanza di coerenza nelle politiche adottate.
Infine, nonostante il decreto preveda risorse finanziarie, queste sono considerate insufficienti per affrontare in modo adeguato la crisi idrica. La siccità richiede investimenti significativi nella gestione delle risorse idriche, nell’infrastruttura idrica, nelle tecnologie innovative e nella ricerca scientifica. La mancanza di finanziamenti adeguati limita l’efficacia delle misure adottate nel contrastare gli effetti a lungo termine della siccità.
Una politica lungimirante dovrebbe criticare l’intero sistema dì gestione idrica, iniziando con la dismissione della gestione privata, la manutenzione del sistema idrico e spingendo il settore agroindustriale verso una trasformazione radicale.
L’acqua è fondamentale per il benessere umano e la salute, l’energia e la produzione degli alimenti, per gli ecosistemi sani e la biodiversità, la parità di genere e la riduzione di povertà. Oggi stiamo affrontando una crisi idrica mondiale, miliardi di persone in tutto il mondo continuano a non avere accesso all’acqua. Si stima che più di 800.000 persone muoiono ogni anno a causa di malattie direttamente correlate ad acqua non sicura, servizi igienici inadeguati e povere pratiche igieniche.
Le pretese per questa risorsa preziosa continuano ad aumentare: circa 4 miliardi di persone soffrono di scarsità idrica estrema per almeno un mese all’anno, 2 miliardi di persone per la maggior parte dell’anno. Dall’aumento delle inondazioni, all’imprevedibilità delle piogge e della siccità, gli impatti della crisi climatica sull’acqua hanno un ritmo sempre più rapido. Secondo l’ultimo rapporto del World Meteorological Organization, i rischi legati all’acqua sono aumentati in modo allarmante. Dal 2000, le inondazioni sono aumentate de 134%, mentre la durata della siccità è aumentata del 29%.
Il continente europeo soffre di una crescente siccità dal 2018. Il progressivo aumento delle temperature non facilita il recupero del deficit idrico accumulato anno dopo anno a causa delle scarse precipitazioni, registrando in alcune regioni europee, tra cui la Catalogna e la Pianura padana, un elevato rischio per l’approvvigionamento idrico in vista dei mesi più caldi. Secondo i dati dell’ultimo report annuale di Copernicus, il servizio europeo di osservazione della Terra, lo scorso anno è stato il più secco da quando esistono le rilevazioni scientifiche per il clima, ovvero dalla metà del secolo scorso.
La siccità dei mesi scorsi ha portato il 63% dei fiumi europei ad avere un livello di riempimento ben al di sotto della media. Le temperature record della scorsa estate, la più calda di sempre in Europa con 1.4°C al di sopra della media, hanno impoverito anche i bacini idrici sotterranei. In molte zone dell’Europa occidentale si ha un’umidità del suolo inferiore del 4% rispetto alla media, mentre in alcune zone di Spagna e Turchia si arriva anche all’8%. In Catalogna la capacità dei bacini si attesta al 27%, un dato che ha portato l’associazione degli agricoltori spagnoli Coag a dichiarare “compromesse” diverse colture di cereali e olive, oltre che a ridurre del 40% l’acqua utilizzata per le altre coltivazioni. La disponibilità di acqua in Spagna potrebbe scendere fino al 40% entro il 2050.
In una situazione simile si trovano Francia e Italia, dove, oltre al prosciugamento dei fiumi, si sta facendo i conti con la rapida fusione dei ghiacciai alpini aumentata del 57% rispetto agli anni ’90. Si stima che perché l’Europa esca dal circolo vizioso di deficit idrico avremmo bisogno di quasi un decennio ricco di precipitazioni e se queste resteranno invariate le alte temperature ridurranno ulteriormente le riserve di acqua presenti. Se i Paesi meridionali sono quelli più a rischio, anche Polonia, Bulgaria e Romania mostrano condizioni allarmanti verso una piena siccità. L’Osservatorio europeo ha evidenziato un certo stress idrico anche per quanto riguarda le riserve dei Paesi scandinavi. Il nord Italia è tra le zone più colpite, insieme a Francia, Spagna e Gran Bretagna, paesi in cui la scorsa estate sono state imposte restrizioni sull’uso dell’acqua, sollevando domande sul problematico uso dell’acqua per le infrastrutture turistiche, le grandi installazioni industriali e l’agricoltura industriale. Secondo le stime almeno un quarto di questa risorsa a livello europeo va sprecata a causa delle perdite delle condutture.
Se in Europa la situazione inizia a diventare critica, in altre parti del pianeta la crisi idrica è estremamente grave e solleva contraddizioni profonde del sistema sociale ed economico in cui viviamo. Lo testimonia il fatto che dagli anni 2000, un quarto dei conflitti innescati dall’accesso all’acqua si è verificato in tre aree maggiormente minacciate dal riscaldamento globale: il Medio Oriente, l’Asia meridionale e l’Africa subsahariana. Il numero dei conflitti legati all’acqua è in aumento. Erano 220 fra il 2000 e il 2009, sono saliti a 620 tra il 2010 e il 2019, e dal 2020 a oggi, sono stati registrati 201 conflitti.
La fotografia di questi ultimi due anni espone una maggiore concentrazione di conflitti sempre nel corno d’Africa e nel subcontinente indiano, ma è considerevole il numero di conflitti in corso anche in Medioriente e in America del Sud. Nella maggior parte dei casi (140 su 201) si tratta di conflitti relativi all’accesso all’acqua, ma essendo l’acqua una risorsa essenziale è utilizzata come arma attraverso la sua sottrazione alle comunità per indebolirle e frammentarle. Vi sono diversi esempi di questa grave tendenza globale che lega la crisi idrica alla privatizzazione e alla privazione dell’acqua alle popolazioni, tendenza che prospetta con sempre maggior evidenza il rischio di un’ulteriore conflitto globale con al centro proprio l’appropriazione delle riserve idriche d’acqua dolce.
Sono particolarmente notevoli i grandi conflitti collettivi in corso in Sud America, in particolare in Bolivia, Perù, Equador, Colombia, dove le popolazioni locali sono private dell’acqua potabile principalmente dalle attività di estrazione mineraria e dell’agroindustria, nonché dai processi di privatizzazione e di captazione dell’acqua ai fini della produzione di energia idroelettrica. Sono 40 quelli totalizzati in questi soli 4 stati secondo l’Atlante Mondiale della Giustizia Ambientale, di cui 11 classificati come ad “alta intensità”. In questi conflitti al di là del fattore politico e sociale si intersecano fattori culturali: la vasta percentuale di popolazione indigena che abita queste zone, ha un approccio non solo materiale ma anche spirituale alle risorse tra cui anche l’acqua. La città di Cochabamba in Bolivia, è il simbolo della lotta contro la privatizzazione del servizio idrico e tra i più eclatanti esempi dei danni provocati dalla privatizzazione delle risorse idriche. In un primo tempo le richieste dei cittadini sono state violentemente respinte però la forza della sollevazione popolare è stata tale da costringere il governo, nel 2000, ad abolire la legge 2029 sull’acqua potabile e sulle reti fognarie che aveva dato il via libera alle privatizzazioni, e a municipalizzare nuovamente il servizio idrico, interrompendo il contratto con la multinazionale Bechtel. In Cile una vasta coalizione di cittadini si sta battendo contro la costruzione di ben 5 centrali idroelettriche che supererebbero la potenza di 2750 megawatt. In Colombia la grande diga di Hidrohituango sul fiume Cauca, oltre a inondazioni improvvise che hanno travolto interi villaggi, sta limitando l’accesso all’acqua della popolazione locale, che soffre anche della collusione fra grande industria e forze paramilitari. In Messico nel luglio 2022 la Commissione Nazionale per l’Acqua – Conagua – ha riportato che 1’84% del suolo nazionale e 1.295 municipalità affrontano, attualmente, una drammatica siccità. I dati specifici testimoniano la gravità dei danni: a luglio 8 dei 32 Stati messicani hanno subito una siccità di livello estremo o moderato, lasciando 1.546 dei 2.463 comuni del paese in carenza idrica, colpendo il 48% del territorio nazionale. Nello stato del Nuevo Leòn, nel Messico nord-orientale, e in particolare nella sua capitale Monterrey, la popolazione ha dovuto fare i conti con pesanti razionamenti dell’acqua potabile, resa disponibile per sole sei ore al giorno. Maggiori ricadute colpiscono la popolazione più povera che non può permettersi l’acqua in bottiglia, che è interessata da un costante aumento dei prezzi, e inoltre ha un accesso ai rubinetti drasticamente inferiore rispetto ai quartieri ricchi. In questa zona sono presenti aziende che producono bibite, estraendo e consumando miliardi di litri di acqua dai bacini pubblici e sorgono grandi stabilimenti di imbottigliamento, tra cui Coca Cola e Heineken. Lo sfruttamento delle risorse idriche locali è permesso in virtù di contratti stretti con agenzie statali corrotte che ne hanno permesso l’utilizzo. Secondo le stime, queste aziende consumano quasi 90 miliardi di litri all’anno e oltre la metà di questi è acqua proveniente da bacini pubblici. La multinazionale Coca Cola arriva a poter utilizzare circa 300.000 litri al giorno da fonti idriche locali. A fronte della grave situazione è nato lo slogan “non è siccità, è saccheggio” e diverse rivolte che raccolgono la maggior parte della popolazione.
La Turchia rappresenta un caso esemplare nell’utilizzo del controllo dell’acqua come arma. Fin dalla sua fondazione lo stato turco ha considerato come parte inalienabile del proprio territorio l’acqua dei fiumi Tigri e Eufrate e così il loro sfruttamento, che si è articolato in una moltitudine di dighe e centrali idroelettriche che formano il GAP (south-eastern anatolia n project), un esteso piano di approvvigionamento energetico. I due fiumi sono fondamentali per l’area mesopotamica, dal momento che nascono dalle montagne turche e attraversano anche Siria e Iraq. Di fatto la costruzione del GAP promuove una forma di controllo del territorio che accompagna sfruttamento coloniale e militarizzazione e ha per conseguenze la distruzione del patrimonio curdo, assiro e armeno; come l’allagamento pianificato della bimillenaria città di Hasankeyf seguito alla costruzione della diga di Ilisu. Si stima che dal GAP in avanti il livello dell’acqua dell’Eufrate si sia abbassato del 75%, inaridendo l’intera regione. Quando nel 2015 le SDF hanno liberato la diga di Tishrin nel nord della Siria, la Turchia ha iniziato a rilasciare il 40-50% di acqua in meno, soprattutto nei periodi primaverili ed estivi. Questo ha significato una diminuzione di acqua potabile, corrente elettrica e irrigazione nei campi, con un drammatico impatto sulla popolazione di Manbij e Kobane. Nonostante difficoltà e repressione, nella Siria del Nord e dell’Est una serie di organizzazioni ha dato vita alla campagna “Water for Rojava” per supportare progetti legati all’acqua e a cooperative di donne nell’area. Nel 2019, sempre Erdogan ha completato la costruzione della diga a Sud-Est della Turchia, andando a minacciare anche la sopravvivenza dei popoli iracheni. Il tasso di stress idrico in questo Paese, dopo la costruzione del GAP, ha raggiunto 3,7 su 5, classificandosi di fatto come un Paese “ad alto rischio”, aggravando una condizione che era già fortemente critica a causa degli effetti della crisi climatica che ha determinato innalzamento delle temperature nell’area con picchi di 52 gradi, i devastanti effetti della Guerra del Golfo con l’invasione statunitense e l’estrazione massiccia di greggio ad opera di compagnie petrolifere come ENI.
Le questioni relative alla condivisione dell’acqua costituiscono una parte importante anche del conflitto israelo-palestinese. I due Paesi si spartiscono tre principali fonti d’acqua: il bacino del fiume Giordano, la falda acquifera costiera – con Israele a monte e Gaza a valle – e la falda della montagna che inizia in Cisgiordania e sfocia nella Valle del Giordano. All’inizio dell’occupazione da parte di Israele di parte dei territori palestinesi, lo Stato aveva a disposizione limitate falde acquifere e faceva quindi affidamento sull’acqua palestinese. Dopo la guerra dei sei giorni de11967, Israele occupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, nazionalizzando le risorse idriche dei territori occupati. Israele ha potuto così accaparrarsi il controllo delle tre falde acquifere e limitare l’uso dell’acqua alla Palestina, obbligando i cittadini a richiedere l’autorizzazione prima di qualsiasi costruzione di sviluppo come nuovi pozzi. Il prezzo dell’acqua pagato dai palestinesi è triplicato negli anni e la carenza idrica ha raggiunto anche la Cisgiordania e la striscia di Gaza.
Un’altra Water War in cui la crisi climatica ha un ruolo protagonista è la disputa sulle acque del Nilo, che sta spingendo gli stati regionali a competere per la sicurezza dell’acqua, del cibo e dell’energia. Al centro del conflitto vi è la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), un progetto idroelettrico sul Nilo dell’Etiopia annunciato nel 2011.11 Cairo e il Sudan, due Paesi che dipendono maggiormente dal flusso d’acqua del Nilo, si sono opposti subito al progetto, in particolare il Cairo teme per la sua stabilità regionale e per la possibilità di carenza idrica, inoltre il Nilo è per l’Egitto inseparabile dalla storia e dall’identità della sua cultura. Il GERD andrebbe a riempirsi con un corso d’acqua che sostiene 280 milioni di persone e potrebbe ridurre le forniture idriche a valle dell’Egitto di oltre un terzo. Un deficit idrico che potrebbe destabilizzare il 72% della terra coltivabile del territorio egiziano e portare la disoccupazione al 24%, sconvolgendo l’economia e costringendo a sfollare gli abitanti.
Dopo aver fatto un excursus globale, aver analizzato la fase storica globale che stiamo affrontando, aver approfondito la questione della siccità, dell’emergenza idrica e le lotte per l’acqua che vi sono, è importante passare alla dimensione locale per capire come mai abbiamo scelto di fare un campeggio proprio a Torino incentrato su acqua e cemento. Storicamente Torino è la città dell’industria e dell’automobile, ciò ha portato negli anni ad un’estrema cementificazione della città con il 65% di suolo utilizzato, questo dato la attesta come la città italiana più cementificata, la media di tutto il territorio nazionale si aggira attorno al 7%. Il cemento è una miscela che viene utilizzata nelle costruzioni dai tempi degli antichi Romani, ma l’uso massiccio del cemento armato (mix di calcestruzzo e armatura metallica) lo ha trasformato nel materiale edile più distruttivo del pianeta.
Innanzitutto è importante sottolineare che le costruzioni in cemento armato (strade, ponti, edifici, dighe) durano in media cinquant’anni; nell’estate del 2018 il crollo del ponte Morandi di Genova ci ha drammaticamente messo di fronte a questa realtà. Tale indebolimento, oltre a una mancata manutenzione e inadempienze nella realizzazione delle opere, è causato dal metallo che si arrugginisce a contatto con l’umidità. In secondo luogo, essendo il cemento il materiale più impiegato a livello globale, la sua industria è una delle più inquinanti, al punto che se fosse un paese sarebbe il terzo più impattante per emissioni di CO2. Inoltre, per la sua produzione è necessaria un’elevata quantità di acqua, l’industria del cemento comporta il consumo di circa il 10% dell’acqua disponibile sul pianeta. Infine, l’utilizzo del cemento comporta deforestazione ed impermeabilizzazione del suolo con effetti devastanti sul clima, sulla biodiversità e sulla sicurezza idrogeologica dei territori.
Il cemento ha effetti e crea danni anche su un piano sociale urbano. Le abitazioni popolari costruite nel corso del secoli scorsi vengono progressivamente sostituite con le abitazioni di massa a basso costo e in zone urbane poco collegate e periferiche, ciò rende le classi meno abbienti ancora più invisibili alle istituzioni e al resto della popolazione urbana. Queste case popolari di massa sono costruite in tempi rapidi e di frequente senza il rispetto di tutte le normative sull’edilizia, luoghi in cui gli spazi condominiali pubblici non sono idonei allo sviluppo di una comunità, in cui l’incontro e la socialità sono impossibili, trasformandoli così in non-luoghi. L’utilizzo del cemento tende proprio a trasformare il mondo in un regno della monotonia e dell’omogeneità, che da estetica, eliminando le diversità, diviene di conseguenza anche culturale. Anselm Jappe ritiene che il cemento possa esser il lato concreto del capitalismo e della sua astrazione: sacrifica le esigenze degli abitanti alle logiche economiche, che mirano alla quantità senza distinzioni qualitative e che sono state in grado di presentarsi, sia al centro sia alla periferia del mondo, come insuperabili e desiderabili.
Oggi con un’intensità sempre crescente assistiamo ad un attacco violentissimo delle aree verdi e dei parchi naturali, sono svariate decine solo sul suolo nazionale i progetti di cementificazione di spazi verdi che ancora resistono alla speculazione. A Torino ci sono tre grandi progetti che hanno in comune la stessa cosa: costruire su tre parchi della città. Per colmare l’enorme debito pubblico che a seguito delle Olimpiadi Invernali del 2006 è aumentato di 3 miliardi di euro, il Comune ha deciso di svendere e speculare sugli spazi pubblici cittadini, in primis i parchi.
Il parco Artiglieri di Montagna, vicino al centro culturale Coma la, è stato venduto a Esselunga e lì si vuole costruire l’ennesimo supermercato in un quartiere che ne è già saturo. Ad aprile dal comitato EsseNon è stata occupata l’ex caserma “La Ma rmora”, limitrofa al parco, da cui è nata una Laboratoria Ecologista Autogestita (L.E.A); l’occupazione è stata sgomberata ma la LEA continua a resistere proprio nel parco su cui Esselunga vorrebbe costruire il proprio supermercato.
Il parco della Pellerina è stato invece scelto come sito dove far nascere un ospedale privato – con parcheggio annesso – nonostante le obiezioni mosse dalla cittadinanza. L’area in questione non sarebbe consona alla costruzione di un’opera del genere dal momento che è a rischio allagamenti: nell’alluvione del 2000 proprio l’area che è al centro del progetto ricade nella ‘fascia fluviale allargata’ del fiume Dora Riparia e questo porta alla conseguente necessità di limitare il più possibile gli interventi di trasformazione del suolo che comportano aumenti di superfici impermeabili. Tuttavia questo ostacolo non preoccupa minimamente la giunta comunale che lo ritiene superabile in virtù del carattere di pubblica utilità dell’opera. Il Comitato sorto a difesa del parco ha awiato una raccolta firme popolare per opporsi alla cementificazione, ovviamente si dichiara a favore della sanità pubblica, ma non è chiaro come e perché venga contrapposta sia al rispetto di uno dei pochi polmoni verdi rimasti nel Comune di Torino, a fronte di centinaia di ex aree industriali abbandonate, sia alla sicurezza della popolazione considerando la vicinanza al fiume e il rischio di allagamento.
Infine al Parco del Meisino la fretta di accaparrarsi i fondi del PNRR non ha lasciato spazio ad una valutazione critica dei danni ambientali e socioeconomici che la costruzione di una cittadella dello sport, qualora verrà realizzata, causerà su un terreno in parte boschivo e in parte utilizzato per il pascolo.
Una cosa che accomuna tutti i progetti che vogliono esser considerati all’avanguardia, sostenibili e “green” è che si celano dietro alla nomenclatura di riqualificazione: trasformare completamente interi quartieri, utilizzando ogni area rimasta pubblica per trarne profitto. Nella gestione del suolo urbano la trasformazione da pubblico a privato determina una massiccia e preoccupante esclusione ed emarginazione di gruppi sociali ed individui. Torino città degli hub d’innovazione ambientale e spaziale con forte vocazione green è ciò che gli attori istituzionali vogliono vendere attraverso la riqualificazione e rigenerazione urbana, creando ingenti profitti per grossi gruppi imprenditoriali privati e aumento della povertà per la popolazione.
E’ sempre in nome della “riqualificazione” che il Comune di Torino, in collaborazione con la Regione Piemonte, il Politecnico, la NATO e Leonardo s.p.a., ha deciso di alimentare la corsa ad armamenti sempre più tecnologici con l’approvazione del progetto di creazione della Città dell’Aerospazio DIANA (Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic). Torino è una città post-industriale la cui immagine è sempre stata legata alla FIAT ma negli ultimi anni, da quando quest’ultima non caratterizza più il capoluogo piemontese, la classe politica e gli attori pubblici hanno cercato di “riqualificarla” dando un nuovo volto alla città: città della cultura, dei grandi eventi (Eurovision, AtpFinals…), del cibo, dell’arte, dell’università. Ma per dare un nuovo volto alla città della FIAT, è necessario attrarre grandi finanziatori e permettere una conversione industriale in linea con ciò, ed è proprio in questa cornice che si colloca il progetto della Città dell’Aerospazio, i cui lavori dovrebbero iniziare nel mese corrente (giugno 2023). Si tratta di un progetto congiunto tra il Comune, la Regione, il Ministero delle imprese, la Camera di Commercio, il Politecnico, Leonardo s.p.a.,Thales Alenia Space, di cui oltre 300 milioni di euro provenienti dal PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) e altri 800 milioni da aziende del settore aerospaziale. Si tratta di un progetto di portata enorme che renderà Torino la prima città europea dell’industria bellica nel settore dell’aerospazio, come esplicitamente dichiarato nel Piano strategico NATO di Madrid 2022. La costruzione di DIANA, la Città dell’Aerospazio, ha come obiettivo il sostenere la ricerca scientifico-tecnologica dei centri accademici, le imprese e le start-up che si occupano dello sviluppo di armamenti e tecnologie militari sempre più innovative (le cosiddette deep technologies). È importante sottolineare il ruolo che giocherà la ricerca accademica, in particolare il Politecnico di Torino il cui nuovo campus avrà sede proprio all’interno della Città dell’Aerospazio. Siamo di fronte ad una collusione di interessi di istituzioni pubbliche, autorità locali ma anche regionali e statali, organizzazioni militari, industrie, banche, università e centri di ricerca e formazione che vogliono cambiare il volto della città rendendo Torino la capitale europea delle guerre aerospaziali; guerre sempre più automatizzate e tecnologicamente avanzate.
In conclusione, la cementificazione causa il danneggiamento e la rottura dei cosiddetti servizi ecosistemici, cioè i multipli benefici che gli ecosistemi forniscono al genere umano, che possono essere descritti in quattro categorie principali:
- supporto alla vita, come ciclo dei nutrienti, formazione del suolo e produzione primaria;
- approvvigionamento, come la produzione di cibo, acqua potabile, materiali o risorse;
- regolazione, come regolazione del clima e delle maree, depurazione dell’acqua, impollinazione e controllo delle infestazioni;
- valori culturali fra cui quelli estetici, spirituali, educativi e ricreativi.
È arrivato il momento di chiederci di che tipo di città abbiamo bisogno ma anche che tipo di persone vogliamo essere poiché, riprendendo le parole di Harvey nel libro Città ribelli, «la questione di che tipo di città vogliamo non può essere disgiunta dalla questione di che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di relazioni sociali cerchiamo, che rapporti abbiamo con la natura, che stile di vita desideriamo o che valori etici ed estetici abbiamo».
Se da una parte qualcosa si allarga dall’altra qualcosa viene a mancare. Se da una parte l’imperativo economico spinge alla costruzione di grandi opere dall’altra le risorse primarie naturali si riducono, si esauriscono, si prosciugano. Se da un lato si cementifica, dall’altro si raccoglie siccità, se da un lato si creano possenti strutture in cemento e acciaio dall’altro si creano dei vuoti ecosistemici che non possono essere sostituiti. In Italia la connessione tra crisi idriche localizzate e grandi opere inutili non è qualcosa di nuovo. Il legame tra cementificazione, devastazione ambientale e dispersione delle risorse idriche è tutt’altro che secondario. Simbolo di un sistema estrattivista ed autoritario, il TAV è la riprova di come l’inserimento di queste mega-opere sia causa di trasformazione e accaparramento di terra e conseguente esaurimento di beni naturali essenziali.
La Val Susa rappresenta uno dei tanti luoghi di sacrificio, ormai calpestata da anni di industrializzazione e già segnata dal passaggio di una linea ad alta velocità, di autostrade e strade che come cicatrici l’attraversano. È proprio qui che, nonostante la sfrenata antropizzazione, si è deciso di infierire con l’opera più grande mai realizzata in Europa. Le stime prevedono che per la costruzione del tunnel verrà sprecato annualmente un quantitativo d’acqua pari all’equivalente annuo del consumo di una città di 600.000 abitanti. Attualmente il cantiere disperde 50 Litri d’acqua al secondo. Mentre in alcune borgate gli abitanti sono obbligati a rifornirsi d’acqua tramite autobotti, a pochi chilometri di distanza, si erigono i cantieri di un’opera che spreca annualmente il 60% del fabbisogno idrico dell’intera Valle. L’acqua pura di sorgente, verrebbe quindi sottratta alla montagna, contaminata da polveri inquinanti, e poi reintrodotta nel fiume Dora a seguito di processi di purificazione e raffreddamento, con annesso dispendio energetico.
La montagna, i cui cuori pulsanti sono ruscelli, fiumi e torrenti, risulta un territorio incomprensibile a chi ha ormai perduto qualsiasi legame con la natura. Per il nuovo uomo dehor nature la montagna è una territorio da economizzare, da trasformare in parco giochi per turisti. Un territorio che si appresta a essere in futuro uno scheletro a cielo aperto. Rottami. A Cesana, in Alta Val Susa, ancora giacciono inermi come resti di una vecchia battaglia le rovine della pista da bob costruita in occasione delle Olimpiadi di Torino 2006. Proprio da quelle ceneri si vorrebbe far nascere una mega struttura: lo Skydomedi Cesana, altro progetto folle che permetterebbe di sciare 365 giorni l’anno. Descritto come l’unica possibilità di far rinascere l’economia locale, stravolgerebbe nuovamente i fragili equilibri con i suoi 860 metri di lunghezza e i suoi 60 metri di larghezza, classificandosi come uno tra gli skydome più estesi e imponenti dell’Europa e del Mondo. Ovviamente innevato artificialmente tutto l’anno.
Ed ecco dietro l’angolo le Olimpiadi 2026. L’ennesimo mega evento che vede lo spreco di milioni di fondi pubblici nella costruzione di strutture che eroderanno il suolo su cui saranno erette in modo irreversibile, per poi essere abbandonate. Ripensare ad un appuntamento a II white senza che ci sia la risorsa primaria, secondo istituzioni e ideatori dei mega eventi oggi è diventato possibile. È necessario costruire dei mega-bacini per raccogliere l’acqua o, nel peggiore dei casi, prenderla direttamente dalle sorgenti per poi spararla nelle tratte più adatte a tutti quegli sport in via d’estinzione. La struttura dei mega-bacini è la stessa che traccia il cammino del nuovo agrobusiness che, per difendersi dalla siccità e accaparrarsi l’ormai cosiddetto oro blu, utilizza queste enormi pozze di raccolta, intaccando il territorio per la loro costruzione e privando d’acqua torrenti, ruscelli e piccole aziende agricole. Queste sono misure tecniche di maladattamento che coinvolgono territori montani e agricoli, recipienti senza futuro, saccheggi di un bene primario, un bene comune troppo prezioso per essere derubato a scopo di profitto per pochi. Lo dimostra bene la protesta in Francia dei “Bassins non merci” che ha portato alla partecipatissima giornata di manifestazione a Saint-Soline. Quello che hanno difeso le forze dell’ordine è una struttura pronta ad essere replicata ovunque, non è ammissibile che venga attaccata. I megabacini simboleggiano la presa di coscienza da parte del sistema di potere sociale ed economico di qualcosa che cambia, costituiscono i primi passi verso uno scenario di privatizzazione delle risorse scarse. Il maladattamento non riguarda solo la scarsità di acqua, ne sono un esempio le alluvioni in Emilia Romagna. Territorio in cui emerge ancora più fortemente come l’instaurarsi di giganti di cemento comporti l’incapacità degli ecosistemi di assorbire acqua quando ce n’è troppa e di preservarla quando ne rimane poca. Tra alluvioni, allagamenti, frane e dissesti, proprio nella seconda regione più cementificata d’Italia salta agli occhi la grande contraddizione che vede la volontà di installare un enorme rigassificatore sulle coste di Ravenna.
Nel bolognese si vuole allargare il Passante di Mezzo della rete autostradale, che prevede il passaggio di 65 milioni di veicoli all’anno, 25 000 al giorno rispetto ad ora, e l’emissione di 266 000 tonnellate di CO2 all’anno, 1.850 tonnellate rispetto ad ora. Tutto ciò comporterà disbosca mento e cementificazione di un’area enorme rendendo il territorio ancora più debole da un punto di vista idrogeologico, aumentando l’inquinamento dell’area che è già una delle peggiori in Europa.
Lungo tutto il territorio nazionale si trovano scheletri e cicatrici di grandi progetti abbandonati, opere enormi, inquinanti, mortifere, eppure lo Stato continua a progettarne di nuove, a finanziarle con fondi pubblici, ad appaltarle a maxi aziende mafiose. Ultima tra queste il Ponte sullo Stretto tra Messina e San Giovanni, ultima ma non nuova considerando che la prima idea di progetto risale al periodo pre Unità d’Italia. Il Governo Meloni ha approvato il Decreto Disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria, definendo 15 miliardi di euro, non ancora disposti, per la costruzione del Ponte sullo Stretto, che rientrerebbe nell’itinerario del TEN-T Scandinavo-Mediterraneo delle Reti transeuropee dei trasporti, di cui fa parte anche il TAV Torino-Lione.
I maxi progetti di costruzione sul nostro territorio sono tutti rivolti agli interessi di Stato e grossi capitali e improntati all’intensificare di trasporti e collegamenti per le merci e per il turismo di massa, o alla realizzazione di opere per l’accaparramento di risorse essenziali. La pratica del blocco, del sabotaggio delle grandi opere e soprattutto la costruzione di relazioni di comunità sui territori, comunità che avanzino pretese di scelta sulla propria terra e sulla propria vita e che sulla base di queste si organizzino, è oggi la direzione necessaria da intraprendere per costruire un paradigma sociale ecologico e democratico, per togliere agibilità e spazio ai nemici del Pianeta e dell’umanità.
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è il programma con cui il governo intende gestire i fondi del Next generation Eu, lo strumento di ripresa e blando economico introdotto dall’Unione europea per risanare le perdite causate dalla pandemia. All’Italia vengono destinati complessivamente191,5 miliardi di euro di risorse europee che lo Stato riceverà in dieci rate entro la fine di giugno 2026 se rispetterà tutte le scadenze prese con l’Unione europea. L’Italia è la prima beneficiaria, in valore assoluto, dei due principali strumenti del NGEU.
Ad ora le rate ricevute dall’Italia sono state 2, per un totale di quasi 67 miliardi di euro, e il tema del PNRR continua a essere centrale. Il governo Meloni rassicura cittadini e Unione europea sul rispetto delle tempistiche, al fine di ottenere la terza rata del piano, e al contempo ha definitiva mente approvato la cancellazione del controllo della Corte dei Conti sui progetti finanziati del PNRR. Quello che fin da subito è evidente è la cripticità di tutta l’informazione relativa al piano di investimento, che potrebbe in potenza rimodulare alcuni assi strategici della produzione e del territorio italiani. Non è chiaro cosa si possa o non si possa finanziare, chi può avere decisionalità in merito e le tempistiche. Gli obiettivi a grandi linee che lo Stato italiano si pone di raggiungere attraverso il finanziamento del PNRR sono realizzare: « una pubblica amministrazione più efficiente e digitalizzata; trasporti più moderni, sostenibili e diffusi; un Paese più coeso territorialmente, con un mercato del lavoro più dinamico e senza discriminazioni di genere e generazionali; una sanità pubblica più moderna e vicina alle persone». Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nasce in un contesto di crisi profonda esasperata dalla pandemia di Covid, che però affonda le sue radici, almeno in Italia, in una situazione nazionale in declino dal punto di vista economico da decenni. La soglia di povertà è in aumento dal 2005 ad oggi, toccando punte significative dal 2020, ad essere particolarmente colpiti sono stati donne e giovani. Non per caso, l’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di dispersione scolastica. Dal punto di vista climatico l’Italia è particolarmente vulnerabile, soprattutto alle ondate di calore e alla siccità. Le zone costiere, i delta e le pianure alluvionali subiranno seriamente gli effetti legati all’incremento del livello del mare e delle precipitazioni intense. Secondo le stime dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), nel 2017i112,6 per cento della popolazione viveva in aree classificate ad elevata pericolosità di frana o soggette ad alluvioni. La grave alluvione di maggio in Emilia Romagna e le seguenti in Lombardia sono una conferma ulteriore a quanto da decenni viene detto sull’insicurezza del nostro territorio da un punto di vista idrogeologico.
L’Italia è beneficiaria dei fondi del Next Generation EU da ormai 3 anni, ma la vita di chi vive sul territorio italiano non sembra essere migliorata. Se agli elementi percentuali sopracitati risalenti al 2020 (anno dell’entrata in vigore del PNRR), che hanno registrato ulteriori peggioramenti, sommiamo gli effetti materiali sulla vita delle persone causati dai provvedimenti nazionali e internazionali legati alla guerra ora in corso in territorio ucraino e la speculazione finanziaria dei grandi capitali europei e occidentali sulle materie prime che sta provocando un’altissima inflazione, ci troviamo di fronte ad un carovita che sta mettendo a repentaglio la possibilità di milioni di persone di sostentarsi. C’è un distacco importante tra la percezione delle élites politiche e le nostre esistenze.
Nel Piano si percepisce un paradigma di fondo che poco ha a che vedere con la vita materiale delle persone e i loro bisogni. Leggiamo a ripetizione la parola “concorrenza”, addirittura si dichiara che questa sia ” (…) un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità (…) (la concorrenza) può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale” ma non solo,” la concorrenza è idonea ad abbassare i prezzi e ad aumentare la qualità dei beni e dei servizi”. Non c’è la capacità politica di capire che il benessere dei cittadini non è proporzionale alla crescita del PIL. Si riscontra un’urgenza nel ceto politico di affrontare strutturalmente, non solo la crisi climatica, ma anche le questioni delle disuguaglianze sociali: quelle di genere, razziste, abiliste, generazionali. Questo interesse sta nella volontà di includere queste categorie marginalizzate nei processi di sfruttamento interni al capitale; mentre sulla crisi climatica significa diversificare forme di produzione, l’estrazione di materie prime green, la progettazione e realizzazione di grandi opere infrastrutturali. Non perché ci sia la coscienza di un’urgente necessità di cambiamento, ma per incrementare la crescita economica a fronte di una crisi interna al sistema che sta portando all’impossibilità di abitare questo mondo.
Rispetto ai macro-obiettivi sopra riportati c’è un anello cardine che è trasversale a tutte le campagne perseguite dal Piano: snellire le procedure di approvazione dei progetti. La burocrazia sappiamo bene essere un’enorme problema dello Stato italiano nei termini in cui costituisce una barriera di inaccessibilità ai servizi per chi ne ha bisogno, un insieme di norme che esclude la maggior parte delle persone dai sistemi di welfare statali. Dov’è che lo Stato vede un’urgenza in questo snellimento? Nel facilitare le pratiche per l’approvazione di progetti di cementificazione ed industrializzazione, che perlopiù rimarranno cantieri incompiuti, utili a mettere ad accedere a bandi per miliardi di Euro e ingrassare le imprese appaltatrici. Sul nostro territorio ci sono migliaia di opere assegnate, appaltate, imposte nell’area di interesse e mai portate a termine. Opere poi, che nella maggioranza dei casi non sarebbero servite a nulla nemmeno da concluse, lasciando in secondo piano ciò che di utile e urgente ci sarebbe da fare: implementare servizi pubblici come istruzione e sanità, bonificare ettari di terreni avvelenati dalle industrie made in Italy, mettere in sicurezza territori sismici o soggetti a frane e alluvioni, solo per fare qualche esempio. Quello su cui si vuole scremare, nello specifico, sono le norme in materia ambientale e le disposizioni concernenti la valutazione di impatto ambientale, queste sono considerate un ostacolo alla realizzazione di interventi sui territori e di costruzione di nuove infrastrutture. Sembra che le alluvioni, in Romagna quest’anno e nelle Marche lo scorso, non abbiano scosso la coscienza della classe politica.
Il PNRR è parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese. Il Governo intende aggiornare le strategie nazionali in tema di “sviluppo e mobilità sostenibile; ambiente e clima; idrogeno; automotive; digitalizzazione; filiera della salute;”. Va posto l’accento sulla dicitura “filiera della salute” poiché simbolica in generale della concezione che c’è della vita, del suo valore e di ciò che da essa può essere sacrificato. Il dizionario italiano definisce la filiera come “l’insieme dei settori produttivi e delle relative imprese coinvolti nella realizzazione di una determinata produzione”. Ecco cosa rappresenta la nostra salute, un prodotto, una merce come un’altra, che a suon di tagli, efficientamenti e industrializzazione del settore ha esposto la popolazione ad una crescente carenza di accesso ai servizi sanitari, negando il fondamentale esercizio del diritto alla salute. La privatizzazione e l’aziendalizzazione dei presidi ospedalieri e sanitari ha reso la cura medica e la prevenzione appannaggio di pochi e costretto la popolazione a code di mesi e anni per visite mediche e operazioni chirurgiche sia routinarie sia di urgenza, spingendo e costringendo a rivolgersi alla sanità privata. Gli organi istituzionali stessi riconoscono che la pandemia abbia evidenziato la vulnerabilità dei sistemi sanitari di fronte a tassi di contagio elevati e altre debolezze strutturali. Efficientare la sanità come se fosse un’azienda non è di certo la strada migliore per tutte e tutti, ma una soluzione classista che esclude la maggior parte della popolazione con scarsa disponibilità economica.
La tendenza alla privatizzazione (su tutti i servizi) è chiara anche per il fatto che sin da quando si è reso necessario discutere di indirizzare i fondi europei il (precedente) Governo ha garantito un ampio coinvolgimento del settore privato, degli enti locali e delle forze produttive del Paese. L’attuale governo a guida Meloni è in linea con gli indirizzi individuati dalle vecchie legislature. Dal nostro punto di vista, l’unico modo che abbiamo per affrontare strutturalmente la crisi ecologica in atto è contrastare gli assi portanti del sistema capitalista vigente. Le élites politiche hanno rapinato e fatto proprie le nostre urgenti istanze per permettere la continua riproduzione di questo sistema ; stravolgendone il senso profondo e di fatto operando una “transizione” (all’interno del capitalismo) che ostacola la possibilità di un presente e un futuro dignitosi e vivibili per tutt3. La “transizione ecologica” è intesa e praticata secondo il modello dello “sviluppo”, del “rilancio” e delle “nuove possibilità di mercato”. Questo Piano Nazionale che della “transizione ecologica” fa uno dei suoi tre assi portanti, si pone, nei fatti, obiettivi nel quale non possiamo identificarci. La crisi ecologica è una crisi anche per chi l’ha provocata, per questo i governi anticipano di parecchio i movimenti climatici nel cogliere l’urgenza storica e la possibilità di trasformazione che la crisi climatica offre e impone. Un mondo a risorse finite è un disastro ecologico se il sistema economico e sociale affonda le sue fondamenta di esistenza in un modo di produrre che distrugge e rapina senza limiti. Con questo sguardo analizziamo criticamente le traiettorie che delinea il PNRR.
Due miliardi di euro circa sono destinati a interventi per l’approvvigionamento di acqua, di cui un miliardo sarà investito in acquedotti, mentre un altro miliardo circa è destinato a misure per le fognature e la depurazione delle acque. Siamo in una fase estremamente critica, abbiamo vissuto due anni di severa siccità che ha generato un dimezzamento delle falde acquifere e un’ulteriore accelerazione della fusione dei ghiacciai, l’umidità del suolo è calata ed è aumentata l’impermeabilità rendendolo non più in grado di assorbire importanti precipitazioni con conseguente predisposizione ad allagamenti e alluvioni. Migliaia di abitanti soprattutto dei territori montani e pedemontani hanno subito razionamenti dell’acqua e il settore dell’agricoltura ha registrato una perdita del 60% della produzione, andando a penalizzare soprattutto le piccole aziende agricole a causa dell’aumento dei prezzi dato dalla speculazione fatta sulla scarsità d’acqua.
Dal punto di vista istituzionale ed economico, gli investimenti nelle infrastrutture idriche sono stati insufficienti per anni e causano oggi rischi elevati e persistenti di scarsità e siccità. La frammentazione dei diversi attori e iter decisionali nelle istituzioni rappresenta un ostacolo agli investimenti che permetterebbero una diminuzione dello spreco idrico e una giusta distribuzione della risorsa. L’Italia è inoltre particolarmente vulnerabile agli eventi idro¬geologici e all’attività sismica.
Oltre il 90 per cento dei comuni italiani è ad alto rischio di frane e inondazioni, pari a circa 50.000 km del territorio italiano, circa 1,5 milioni di persone vive in territori ad alto rischio. A fronte di un’evidente carenza di sicurezza delle strutture, gli investimenti del PNRR dedicati alla questione idrica sono indirizzati verso la realizzazione e la manutenzione non del sistema idraulico ma degli invasi e dei bacini di raccolta. Pensare di efficientare la raccolta dell’acqua anziché la sua distribuzione è preoccupante. In Italia lo spreco idrico dettato dalla mancanza di manutenzione delle tubature di idro-distribuzione è pari al 40% in media della portata d’acqua complessiva in corso di distribuzione. A peggiorare il quadro si aggiunge il processo di privatizzazione delle reti idriche, che nonostante i risultati del referendum del 2011 per l’acqua pubblica, viene sostenuto da molti partiti e ha comportato quasi ovunque l’avvento di partecipate basate sul modello aziendalista ed orientate al profitto per cui la manutenzione delle reti rappresenta un costo, da commisurare ai benefici in termini di entrate. A fronte di quanto riportato in precedenza sulla priorità di sveltire e moltiplicare la costruzione di nuove grandi opere, è bene registrare un primato italiano: l’utilizzo dell’acqua per “attività minerarie, manifattura e costruzioni”(4,2 milioni di metri cubi). Nonostante si tenda a paragonare questa situazione con altre siccità “straordinarie” che si sono presentate nella storia recente, la condizione attuale è totalmente differente poiché non si tratta solo di una scarsità di acqua corrente, ma ad essere progressivamente intaccate sono le riserve idriche naturali rappresentate dai ghiacciai perenni. Il governo italiano ha deciso di affrontare il problema idrico attraverso l’istituzione di una cabina di regia contro l’emergenza siccità, presieduta dal vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, e da un commissario straordinario che fino a dicembre (rinnovabile per un altro anno) si occuperà di far marciare velocemente i progetti più urgenti indicati dalla cabina di regia. Il commissario straordinario è Nicola Dell’Acqua, direttore di Veneto Agricoltura e già direttore di Arpav, da pochi mesi anche presidente di Anarsia, la neonata Associazione nazionale delle Agenzie regionali per lo sviluppo e l’innovazione agronomiche forestali.
A suggerirlo, secondo fonti di Governo, sarebbe stato il ministro dell’Agricoltura. Dighe e invasi sono il cuore pulsante del piano del governo. PNRR a parte, il Governo lavora al nodo risorse. Perché, a parte la dotazione di 2 miliardi per combattere la dispersione idrica, non ci sono fondi stanziati per affrontare la questione. Sull’Emilia-Romagna, territorio devastato dalle alluvioni di maggio, il governo e la regione stanno giocando a braccio di ferro tra destra e centro-sinistra sulla pelle di chi ha perso tutto e ancora non ha idea di come, quando e in quale modo si intenda ricostruire. Una prima conta dei danni dichiara 7 miliardi di fondi come necessari per i primi lavori utili, ma sembra addirittura una cifra a ribasso. Al momento il governo avrebbe stanziato 2 miliardi che vanno soprattutto alle imprese, ancora non si è pensato alle infrastrutture.
Il primo settore per consumo di acqua in Europa è naturalmente l’agricoltura, intorno al 40%. In Italia il consumo d’acqua per i campi, le attività forestali e la pesca ammonta a 14,6 milioni di metri cubi. In questo siamo secondi nell’Unione europea, dietro la Spagna. Gli obiettivi che all’interno del PNRR vengono individuati sul settore agricolo riguardano “l’accelerazione del processo di transizione verde e digitale, coniugando sostenibilità ambientale economica e sociale”. Inoltre, in accordo con il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNEC),”le risorse saranno impiegate per il raggiungimento degli obiettivi nazionali al 2030 sull’efficienza energetica, sulle fonti rinnovabili e sulla riduzione delle emissioni di CO2, nonché degli obiettivi in tema di sicurezza energetica, interconnessioni, mercato unico dell’energia e competitività, sviluppo e mobilità sostenibile, delineando per ciascuno di essi le misure che saranno attuate per assicurarne il raggiungimento”. Attraverso il decreto siccità, sembra che paradossalmente l’effetto sarà quello di privilegiare ulteriormente le produzioni più idrovore. Il nostro Paese si sostiene economicamente di giga monocolture come quella del mais, finalizzata in gran parte al mangime per gli animali degli allevamenti intensivi. C’è poi il riso che è una delle poche produzioni su cui il nostro paese è autosufficiente, a livello nazionale sono complessivamente coltivati a riso 227 mila ettari (dati 2020). Di questi il 51% sono in Piemonte (115 mila ettari con in prima fila Vercelli e Novara) e il 43% in Lombardia (provincia pavese, Lomellina e provincia di Milano). Secondo i dati dell’Ente Risi la produzione italiana è di 1,1 milioni di tonnellate, di queste circa 100mila sono esportate. La produzione di riso richiede però un’enorme quantità di acqua tanto che a più riprese è stata tentata la strada di costruire nuovi invasi appositi nel biellese. I provvedimenti dello Stato sono volti al solo sostegno dell’agroindustria, che sta impoverendo il suolo, impattando in modo massiccio sul clima con elevatissime emissioni di CO2, sulla biodiversità e l’ambiente per l’inquinamento da pesticidi e insetticidi, causando un impoverimento materiale dei piccoli agricoltori e la conseguente perdita di cultura contadina e culinaria. Stato e Regioni alimentano la disparità di accesso alle risorse attraverso il sistema dei consorzi, provocando una guerra per l’acqua in cui si accaparra la risorsa chi ha capitale e metrature terriere maggiori.
La Commissione europea ha aperto tre procedure di infrazione per l’inquinamento atmosferico contro l’Italia per particolato e ossidi di azoto. Nel 2017, 31 aree in 11 regioni italiane hanno superato i valori limite giornalieri di particolato PM10. L’inquinamento nelle aree urbane rimane elevato e il 3,3 per cento della popolazione italiana vive in aree in cui i limiti europei di inquinamento sono superati. In un’analisi europea sulla maggiore mortalità causata dall’esposizione a polveri sottili e biossido di azoto, tra le prime 30 posizioni ci sono 19 città del Nord Italia, con Brescia, Bergamo e Torino ai vertici della classifica.
L’inquinamento del suolo e delle acque è molto elevato, soprattutto nella Pianura Padana. La Pianura Padana è anche una delle zone più critiche per la presenza di ossidi di azoto e ammoniaca in atmosfera a causa delle intense emissioni di diverse attività antropiche, comprese quelle agricole. In tal senso sarebbero stati stanziati 62 miliardi di euro per mobilità, infrastrutture e logistica sostenibili, di cui il 56% al Sud con il fine di affrontare i procedimenti che l’Unione Europea ha licenziato nei confronti dei governi italiani.
Dando sempre precedenza alla buona salute e rendita delle aziende sul territorio, con un irrisorio contributo a chi a causa dell’inquinamento si è ammalato o ha perso famigliari. Nel PNRR vi è, infatti, un fondo destinato a quella che viene definita “Transizione Equa” che ammonta a soli 500 milioni che sembrerebbe siano destinati ad accompagnare i processi sociali nelle aree ad alta nocività per la presenza di aziende inquinanti e a promuovere l’occupazione giovanile.
E’ difficile trattare in un capitolo a sé le Grandi Opere perché tutto il PNRR si regge su un modello che potremmo definire della “Grande Opera”. Un dato significativo è che oltre un terzo degli investimenti del PNRR saranno destinati all’alta velocità ferroviaria. Ci sono già due elementi di contesto da esprimere sul tema: Parliamo di Grandi opere a rischio di ulteriori ritardi nell’attuazione degli investimenti del PNRR, che già oggi hanno non poche difficoltà nel raggiungimento dei traguardi di spesa. Il fenomeno si sta manifestando con una certa evidenza soprattutto nel campo delle opere ferroviarie, con REI.
Un altro pericolo è che ci sia una forte concentrazione di cantieri finanziati dal Recovery in mano a pochi o pochissimi costruttori.
In ogni caso, molte gare d’appalto appaiono deserte poiché i preventivi di prezzi non corrisponde più ai quadri economici attuali e nessuna azienda vuole rimetterci. Tra i progetti più propagandistici ci sono il TAV Torino-Lione (750 milioni di euro) e la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina (14,6 miliardi di euro), con le attese norme sull’aumento di capitale fino a 50 milioni da parte di Anas e REI e sulla sospensione dei ricorsi pendenti per molte centinaia di milioni che potranno essere chiusi con «atti transattivi di reciproca integrale rinuncia».
Come detto, dighe e invasi sono le grandi opere previste per far fronte alla siccità. In quanto a dighe è prevista una nuova diga in costruzione al Porto di Genova (1 Miliardo): realizzata ad una profondità che sfiora in alcuni punti i 50 metri, è una delle maggiori dighe foranee mai sperimentate al mondo, la sua utilità è consentire al porto del capoluogo ligure di ospitare navi più grandi, le portacontainer di nuova generazione lunghe fino a 450 metri. Ovviamente non potevano mancare negli elenchi delle opere da commissariare i luoghi interessati dai Giochi Olimpici 2026 di Milano-Cortina, con l’adeguamento del tracciato per il tunnel ferroviario transfrontaliero del nuovo collegamento Torino-Lione. Nel sud è prevista, nel PNRR, la costruzione della Catania-Palermo a cui sono destinati 10 miliardi di euro. Si tratta di un raddoppio in variante e significa che i pendolari non ne potranno usufruire perché correrà lontano dai centri abitati, bucando le montagne. Per ottenere un risparmio rispetto al 2015 (epoca in cui venne potenziata la linea attuale) di mezz’ora, cioè due ore e dieci minuti. E adesso ripassiamo alla Salerno-Reggio Calabria, per la quale sempre nel PNRR è prevista una voce di spesa di 22 miliardi che secondo gli esperti lieviteranno almeno a trenta. Per cosa? Per risparmiare circa un’ora. Ovviamente anche qui come in Sicilia, di ammodernare la linea tirrenica esistente non se ne parla neppure. La circonvallazione ferroviaria di Trento è la prima opera finanziata dal PNRR. Un progetto da oltre 1 miliardo e 200 milioni di euro, finanziato dal Piano con 930 milioni, che prevede la costruzione di 14 chilometri di ferrovia, di cui 11 in galleria, sotto la città e la collina al fine di trasportare le merci ed è parte di un progetto più grande, quello della quadruplicazione della rete ferroviaria tra Veneto e Trentino. Il paradigma della crescita infinita non viene mai abbandonato insomma, nonostante si stia spacciando questo Piano come la rivoluzione verde del capitale europea Ognuna di queste opere (e sarebbe impossibile nominarle tutte) rappresenta solamente la volontà di arricchirsi sfruttando una crisi che imperversa sul nostro paese da molti anni facendo uno sforzo di rilancio sui mercati le cui imprese italiane potrebbero evolversi, questo sempre dimenticando le volontà e i bisogni di chi abita i territori e le priorità sociali odierne.
I fondi del PNRR saranno utilizzati per l’industria bellica. Il piano europeo prevede anche una ricerca congiunta dell’industria bellica europea per trovare le componenti (polvere da sparo, esplosivi, detonatori, macchinari di fabbricazione ecc.) e l’alleggerimento delle norme di produzione e quelle sociali: per l’Italia Breton, commissario europeo per il mercato interno, essendovi blocchi sulle fabbriche che non possono lavorare di notte, ha detto «vedremo se è possibile una deroga» per la produzione di munizioni (per l’Ucraina). Sono previsti alleggerimenti anche nelle regole di acquisto. Sempre Breton sostiene che è necessario aiutare le imprese della difesa Ue ad aumentare la produzione di munizioni e missili, anzitutto per sostenere l’Ucraina, con fondi Ue e degli Stati membri incluso il PNRR. Breton sostiene che entro dodici mesi le industrie europee saranno in grado di aumentare la capacità produttiva a un milione di munizioni all’anno per l’Ucraina.
Il messaggio è chiaro: l’attuale produzione è basata su uno scenario di pace, mentre ora siamo in guerra e l’industria si deve adattare. Secondo questa logica, l’Europa ha inoltre esortato gli Stati membri, al pari della Nato, a investire almeno il 2% del Pil per la difesa, visto il mutato quadro di sicurezza dopo l’aggressione russa dell’Ucraina. E’ stata approvata la risoluzione (Asap) che vuole lavorare per utilizzare il Fondo di coesione e il PNRR per produrre armi, missili e munizioni. L’Asap (Act in Support of Ammunition Production), fa parte del piano che si basa su tre pilastri, in sostegno dell’Ucraina, messo a punto dall’Alto rappresentante Joseph Borrell e approvato al Consiglio europeo del marzo scorso, che ha l’obiettivo di fornire urgentemente munizioni e missili all’Ucraina e aiutare gli Stati membri a ricostituire ed aumentare le proprie scorte. Prevede lo stanziamento di un miliardo di euro per accelerare la produzione da parte delle imprese europee delle munizioni da inviare in Ucraina. E’ stata altresì approvata con un’ampia maggioranza la procedura d’urgenza, cosiddetta ‘fast track’, che oltre a stimolare la produzione di almeno 1 milioni di munizioni entro l’anno, permette agli Stati membri di spostare i fondi europei dai programmi di spesa sociali e dello stesso PNRR per destinarli a nuove forniture di armi a Kiev.
Rientrano sempre nei piani di investimento del PNRR la già citata costruzione della base militare di Coltano in Toscana, addirittura presentata come green ed ecosostenibile, che prevede la distruzione del Parco naturale del Rossore, e la costruzione della Città dell’aerospazio DIANA a Torino.
Vogliamo generare relazioni di confronto, analisi e azione che vedano su questioni urgenti legate alla vita, questioni sociali ed ecologiche nella loro dimensione materiale, politica e culturale. E’ urgente confrontarsi e agire per costruire modelli di organizzazione della lotta e della vita nella società, con la società. La sfida che questi tempi ci presentano è dura ed impegnativa, non sarà sol3 e frammentat3 che riusciremo ad affrontarla e vincerla. Nella diversità e nella specificità di ogni lotta e soggetto dobbiamo trovare le energie e la forza per produrre la potenza e l’organizzazione necessaria a sostenerci e creare prospettive, alternative vive e praticabili. Il paradigma di una società nuova, di una vita nuova è necessario e desiderato ora più che mai a fronte della violenza e della disperata solitudine delle macerie in cui Stati e capitalismo vorrebbero chiuderci. Il dominio, il potere, lo sfruttamento e l’accaparramento di forza lavoro, di forza riproduttiva e di risorse hanno le radici nella stessa struttura ideologica ed economica che produce non solo merci, ma anche cultura e modo di pensare. E’ oltre questa che dobbiamo guardare per riuscire a ripensarci come esseri ecologici facenti parte di una società ecologica, che ricerca nell’equilibrio, nella cura, nella giustizia e nella libertà tra esseri umani e tra umani e non umani la sua forma organizzativa e produttiva.
Sul nostro territorio, ma anche guardando aldilà dei confini politici ad una dimensione internazionale e transnazionale, cogliamo l’acqua come nodo centrale da un punto di vista sociale ed ecologico.
Un nodo centrale a cui portano tutti i fili perché necessaria per la riproduzione della vita di tutt3 e per una vita in salute, centrale in quanto campo di scontro poiché trattata come merce dalle elites politiche ed economiche anziché come bene primario e comune, un elemento minacciato da crisi climatica, deforestazione, cementificazione, devastazione del territorio, privatizzazione e guerra. Un elemento la cui scarsità e cattiva gestione comporterà un crescendo di disparità sociali economiche, di genere ed etniche, che si tradurranno in conflitti sociali e guerre sempre più frequenti. Un elemento che su un territorio depredato e snaturato ha già mostrato alcuni dei suoi lati peggiori: siccità ed alluvione.
In tant3 lottiamo quotidianamente contro gli attacchi e le minacce che il sistema capitalistico e gli Stati agiscono contro la società e il Pianeta, ma se vogliamo emergere da questo scontro epocale come parte vittoriosa abbiamo la responsabilità storica, morale e politica di unirci, coordinarci e supportarci.